Solo oggi, causa la contemporanea chiusura di alcune tra le principali piazze finanziarie (New York, Londra, Zurigo), avremo modo di verificare il “test” dei mercati all’accordo che ha scongiurato “l’ignominia” del default Usa. Senza il “faro” di Wall Street, infatti, ieri i mercati sono apparsi piuttosto incerti sulla posizione da prendere, anche in considerazione, per le piazze regolarmente operative, di scambi molto ridotti rispetto agli standard (Milano, per es, ha negoziato al 50% della media giornaliera).
Le attese, stando ai futures di questa mattina, fanno pensare ad un avvio positivo, seppur non “travolgente”.
Diversi rimangono i punti sotto esame che inducono comunque ad un approccio improntato alla cautela. Fermo restando l’indubbia valenza politica, che permette soprattutto a Biden di approcciare la prossima campagna elettorale da una posizione più “tranquilla” (per quanto la sua popolarità non goda certamente di buona salute), i dubbi riguardano, con riferimento agli aspetti prettamente finanziari, 2 aspetti: il rischio “drenaggio” della liquidità e l’evoluzione degli scenari inflazionistici.
La “macchina” dell’apparato statunitense ha bisogno, per continuare la sua marcia nei prossimi 6 mesi di circa $ 1.000 MD (casualmente lo stesso importo che, in base alle prime stime, che le casse statali risparmieranno, grazie all’accordo, nei prossimi 10 anni), un impegno considerevole anche per la 1° economia al mondo. Alla base di tutto c’è l’attuale politica monetaria attuata dalle Banche Centrali, ad iniziare proprio dalla FED statunitense: le politiche di maggior rigore, come noto, hanno portato ad una riduzione, se non altro per il semplice fatto che lo ha reso più caro, del denaro in circolazione, senza dimenticare che è stato stretto non poco il “cordone della borsa”, visto che ovunque è stato sospeso il QE (acquisto di titoli), che ha lasciato il posto all’operazione opposta (il QT, quantitative tightening). Si pensa, infatti, che i maggiori acquirenti del nuovo debito che il Tesoro dovrà emettere, in mancanza della FED, della Cina (da sempre “amica” quando si tratta di “comprare” debito americano, se non altro per aumentare la propria “pressione” nei confronti di chi, di volta in volta, è chiamato a reggere le sorti degli Stati Uniti) e, almeno in parte, dei Fondi e delle società di Asset Management (visto che ultimamente, proprio a causa dell’aumento dei tassi, riescono “comodamente” a portare a casa rendimento attraverso operazioni di rifinanziamento “a vista”), saranno i risparmiatori privati e le imprese. Se così fosse, si verrebbe a creare una nuova forma, appunto, di “drenaggio” della liquidità, l’equivalente, insomma, di una ulteriore “stretta monetaria”. Denaro che, normalmente (è nota la predisposizione “la rischio” dei risparmiatori americani), affluisce verso il mercato azionario, sostenendone le quotazioni.
A questa preoccupazione, alimentata anche dalla situazione in cui si trova una parte del sistema bancario Usa, vista la nota crisi che ha colpito le banche regionali, che quindi non potranno, come di solito fanno, “soccorrere” il Tesoro, si deve poi aggiungere il sospetto che il movimento sui tassi non sia ancora finito, vista la “vischiosità” dell’inflazione anche negli Stati Uniti. Ad aprile, un po’ a sorpresa, il livello dei prezzi ha smesso di scendere, con l’inflazione core addirittura cresciuto al 4,7% rispetto ad attese che si fermavano al 4,6%. Ragion per cui almeno una parte del mercato comincia a ritenere che nel prossimo meeting in programma a metà giugno la FED dovrà modificare i propri piani, non più tenendo fermi i tassia all’attuale 5/5.25%, ma alzandoli verso la forchetta 5,25/5,50%. Quindi tassi più alti per un periodo più lungo (higher for longer). Essendo l’Europa un po’ più “indietro” rispetto alla “curva” (ed essendo da questa parte dell’Oceano l’inflazione un po’ più alta) si rafforza l’idea che anche da noi la corsa al rialzo non sia ancora finita, dissipando la speranza di un rallentamento durante l’estate e spostandone la data verso l’autunno.
La chiusura per la festività di ieri del Memorial Day non da “punti di riferimento” ai marcati asiatici, che devono limitarsi ad osservare i futures mattutini.
Tokyo continua la sua “rinascita”, con il Nikkei ancora positivo, seppur con un modesto + 0,27%.
Mercati “great China” invece ancora in una fase involutiva, per quanto questa mattina sia Shanghai chead Hong Kong l’Hang Seng si apprestino a chiudere sopra i minimi di giornata (– 0,36% il 1°, – 0,24% il 2°).
Futures positivi oltre Oceano, con il Nasdaq a + 0,50%, mentre al momento sono fiacchi quelli europei, con l’Eurostoxx a – 0,35%.
Aperture negative per le materie prime: petrolio (WTI) a $ 72,29, – 0,63%, mentre è più pesante il gas naturale Usa, in calo del 2,69% a $ 2,355.
Debole anche l’oro, a $ 1.952,40, – 0,63%.
Spread a 183 bp, con il BTP decennale che si porta al 4,27% dal precedente 4,39%, mentre “scalda i motori” il BTP Valore, il cui collocamento è previsto tra il 5 e il 9 giugno.
Treasury a 3,76%.
Nuovo rafforzamento per il $, che scende sotto la barriera dell’1,070, toccando questa mattina 1,0688 vso €.
Bitcoin sull’altalena, a $ 27.768.
Ps: tutti, chi più chi meno, sappiamo quanto importante sia la musica e che possa “segnare” la nostra vita, fermando alcuni momenti, assumendo un valore emotivo incredibile. Ma il “valore” finanziario che può avere forse supera quello emotivo. Negli anni scorsi Bruce Springsteen e Bob Dylan (ma anche i Pink Floyd) hanno ceduto il loro catalogo musicale per diverse centinaia di $ (500 Springsteen, 450 Bob Dylan). Cifre pazzesche. Che però diventano poca cosa rispetto a quanto sembra siano disposti ad offrire la Universal Music e qualche fondo di Private Equity per comprare il catalogo musicale dei Queen: $ 1.1 MD (può essere di aiuto sapere che nel 2021 le royalties incassate sul catalogo in questione sono stare pari a circa 39 ML di sterline).